NEWS NOVEMBRE 2020.
IL PARADOSSO DEI BUCHI, DALLE STRADE AL BILANCIO.
Proprio nei primi giorni di Novembre è riafforato sul giornale locale il tormentone dei buchi nelle strade che l'Amministrazione non riesce a riparare. E' una notizia che ogni anno si ripropone, un vero e proprio best seller. Ufficialmente la causa delle strade colabrodo non è la cattiva amministrazione, ma la mancanza incolpevole di soldi in bilancio.
Sarà vero? E' lecito dubitarne e vi spiegheremo perchè. La vicenda che vi racconteremo lascia l'amaro in bocca, anzi una voragine in bilancio. Una voragine da milioni di euro, tutto per una "leggerezza" di un dirigente: una voragine di milioni di euro che sarebbero serviti per riparare migliaia di buche.
Recentemente è stata pubblicata la sentenza n. 596/2020 del Tar Sardegna che fornisce uno spaccato del disagio socio – politico – amministrativo del nostro territorio.
La vicenda risale al lontano 1993 quando il Consiglio Comunale di Sassari approva con delibera n. 169 un piano di lottizzazione che interessa la parte finale di viale Italia all’incrocio con via Budapest (sottozona D8-S3 dell’ambito 2). La potenzialità edificatoria era di mc 111491 con destinazione commerciale, ricettiva e terziaria. A causa del fallimento della società proprietaria del terreno soltanto nel 2000 il curatore del fallimento chiede al Comune di stipulare la convenzione di lottizzazione, necessaria per iniziare i lavori edificatori. Tuttavia il Comune rigetta l’istanza motivando che il piano di lottizzazione è decaduto in quanto non sono state realizzate le opere di urbanizzazione nei 10 anni trascorsi in ragione dell’artt. 28 della legge Urbanistica Statale ( L. 1150 del 1950).
Per capire che non si vuole enfatizzare l’assurdità di questa vicenda si riporta testuale il V° comma dell’articolo 28 sulla base del quale i funzionari del Comune hanno giustificato il rigetto dell’istanza di convenzione:
“L’autorizzazione comunale è subordinata alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda:
1)la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate all’articolo 4 della legge 29 settembre 1964, n. 847, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria nei limiti di cui al successivo n 2;
2) l’assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all’entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni;
3) i termini non superiori ai dieci anni entro i quali deve essere ultimata l’esecuzione delle opere di cui al precedente paragrafo;”
La norma è chiara: per avviare i lavori edili è necessario stipulare la convenzione che deve prevedere obbligatoriamente una serie di prescrizioni tra i quali anche i termini per la conclusione delle opere di urbanizzazione che non devono essere superiori ai 10 anni.
Tuttavia il dirigente del Comune pro tempore disattende l’interpretazione letterale della norma e ne fornisce un’altra piuttosto stravagante presupponendo evidentemente che il piano di lottizzazione sia un atto indistinto rispetto alla convenzione. A riguardo, senza citare giurisprudenza che a volte sembra fatta al solo scopo di essere ripresa in qualche rivista giuridica, si osserva che se il legislatore ha separato i due atti attribuendogli funzioni e caratteristiche diverse un motivo ci sarà.
Senza incanalarsi in un discorso troppo lungo, si sottolinea che soltanto la convenzione va trascritta e questo pare più che sufficiente per separare nettamente i due atti.
L’errore è marchiano e non cessa neppure quando gli avvocati dell’immobiliare che nel frattempo avevano comprato il terreno (prezzo di acquisto € 5.760.000,00) scrivono nero su bianco che stavano prendendo un abbaglio grande quanto il centro commerciale che intendevano costruire.
Nell’anno del Signore 2004 si va in causa. Il ricorrente è un’altra immobiliare che paga la stessa cifra della prima transazione, evidentemente sicura che l’acquisto si sarebbe rilevato un affare. Il rigetto fatto dal Comune è manifestamente infondato.
Passano gli anni e nel 2011 il Comune adotta il PUC riducendo notevolmente l’edificabilità del terreno. La società immobiliare cerca di resistere facendo osservazioni, richieste di varianti e presentando una proposta finalizzata alla costruzione di una residenza universitaria. Ma il PUC non viene cambiato e nel 2013 si perviene alla sua approvazione.
Sempre nel 2013 il Tar Sardegna annulla il rigetto con il quale il Comune si era rifiutato di disporre la convenzione necessaria per dare inizio ai lavori. Il comune non fa ricorso e la sentenza passa in giudicato. In effetti che senso ha proporre ricorso se intanto il piano di lottizzazione ormai non può essere più convenzionato a seguito dell’approvazione del PUC? Peraltro, ragione ancora più convincente, come si potrebbe vincere una causa persa in partenza?
L’immobiliare si attacca. Qualcuno avrà pensato di sicuro. Invece no. Nel 2014 la stessa immobiliare fa due ricorsi al tar: uno per l’annullamento del PUC e l’altro per il risarcimento dei danni patiti dalla mancata edificabilità del terreno. Naturalmente il primo ricorso viene rigettato, ma se uno ha un minimo di accortezza giuridica capisce che serviva esclusivamente per avere la vittoria sicura sul secondo ricorso quello del risarcimento.
Ed eccoci al dunque, 3 novembre 2020. Il Tar Sardegna accoglie il ricorso e quindi sancisce il risarcimento dei danni alla società immobiliare. Il Comune di sicuro non impugnerà la sentenza perché se andasse al Consiglio di Stato gli darebbero una mazzata sulla testa che la metà basta.
Cosa dice il Tar. Il risarcimento è dovuto per due ragioni: 1) il danno è provato; 2) la colpa della pubblica amministrazione è evidente. Addirittura il Giudice amministrativo scrive che: “la questione poteva essere risolta dall’amministrazione utilizzando una diligenza minima e comportandosi secondo il canone della buona fede”. Si può sorvolare sul concetto di diligenza minima, magari i funzionari erano affaccendati gravemente su altre questioni. Ma quando il Giudice parla di buona fede probabilmente allude a qualcosa di diverso dalla competenza. Il danno e la colpa del Comune sono talmente evidenti che se non si riconoscesse il risarcimento, la discrezionalità sarebbe sinonimo di arbitrio.
Sarebbe interessante leggere gli atti di difesa del Comune. In particolare rispetto alla sentenza del 2013 interesserebbe conoscere i ragionamenti dell’avvocato a sostegno della legittimità dell’atto di rigetto dell’istanza di convenzionamento.
Il TAR non scrive nero su bianco la cifra che il Comune dovrà risarcire all’immobiliare, ma si profila un fuori bilancio di circa una decina di milioni di euro, anche perché in questo momento di crisi nera dell’economia e dell’edilizia in particolare, è difficile pensare che l’immobiliare intenda ancora costruire nella suo terreno. A questa cifra si aggiungano le spese legali di due procedimenti giudiziari persi. Nel primo, quello terminato con la sentenza del 2013, il rappresentante del Comune era un avvocato esterno e, quindi, il Comune ha pagato non solo gli avvocati dell’immobiliare, ma anche il suo.
Della vicenda sorprendono tre criticità:
L’incapacità di gestione del problema da parte del Comune. Lo stesso Giudice Amministrativo mette in dubbio la buona fede della pubblica amministrazione perché, a parte l’atto che dà origine a tutto e che è gravemente illegittimo (come scritto in sentenza), qualcuno dovrebbe spiegare come mai nessuno tra politici, dirigenti e funzionari che si sono succeduti in trent’anni di tempo abbia mai risolto o per lo meno attenuato il problema. Sono arrivati a contestare l’azione di risarcimento per una prescrizione dell’azione stessa pur di non affrontare la questione. Si potrebbe dire che così facendo il barile l’hanno scaricato sui contribuenti sassaresi;
La lentezza della giustizia. I giudici del Tar (sono tre) per decidere sul ricorso del 2004 che liquidano in tre paginette di motivazione rilevando una incontestabile illegittimità dell’atto hanno avuto bisogno di quasi 10 anni. Per il ricorso di risarcimento hanno deciso dopo 6 anni. Ora qualcuno dovrebbe spiegare come mai i procedimenti amministrativi di norma devono concludersi in 30 giorni, mentre le sentenze possono essere esperite senza alcun limite temporale stabilito dalla legge. È un’assurdità. Si dice in genere a giustificazione di questa sconsolante situazione di giustizia lumaca che il giudice è chiamato a decidere su situazioni disomogenee e di varia complessità. Tuttavia, anche per l’amministrazione attiva potrebbe valere lo stesso discorso eppure il termine temporale è stato imposto dalla legge.
Il buco giornalistico. Nessuna testata giornalistica locale ha dedicato neppure un trafiletto alla vicenda.
Per chi vuole approfondire la vicenda giurisprudenziale, alleghiamo le sentenze di questa paradossale situazione.